lunedì 16 maggio 2011

La fine di Internet (come lo conosciamo)

"Di cosa si occupano davvero gli innovatori, oggi?" Questa è la domanda che Oliver Burkeman, giornalista del The Guardian inviato al SXSW (South by Southwest Festival) di Austin lo scorso marzo, ha posto a tutti quelli che ha incontrato. La risposta è stata vaga e, tuttavia, per certi aspetti fondamentale: "It's kind of everything".
Questo è, secondo Burkeman, il vero punto chiave emerso al Festival: non si tratta più di trasformare la parte della vita umana che la gente investe in rete. Ma di abbattere definitivamente il muro tra la vita online e la vita vera, tra il fisico e il virtuale. Arrivare a quello che Mark Weiser nel lontanissimo 1988 definiva "computer ubiquo" (ubiquitous computing), intendendo quel sistema di periferiche talmente pervasivo e capillare da spostare l'utilizzo della rete sullo sfondo costante delle nostre vite reali.

Se il Web 2.0 è stata la piena realizzazione della promessa di un internet collaborativo – nel quale gli utenti potevano creare anziché consumare: pensate a Flickr, Facebook, Wikipedia – il Web 3.0 farà loro dimenticare che stanno creando in rete. Quando il sistema GPS del tuo telefono informa un negozio d'interesse della tua presenza, quando Facebook usa il riconoscimento facciale per taggare le foto che posti, quando i tuoi movimenti finanziari vengono trackati mediante carta di credito in real-time, qualcosa sta cambiando. Stai ancora creando la rete, ma lo fai senza saperlo, senza consapevolezza né volontà diretta.

Tim O'Reilly, inventore del termine "Web 2.0" e profeta della rete, dice: "Telefoni e macchine fotografiche diventeranno i nostri occhi e orecchie. I sensori diranno dove siamo, cosa stiamo guardando, quanto veloce ci stiamo muovendo. Il web diventerà il mondo stesso, quando riuscirà a catturare e processare con intelligenza l'aura di informazioni e dati che circonda noi e le nostre periferiche".

4 commenti:

elisa ha detto...

Wow, che allegria. ;)

OniceDesign ha detto...

Colgo l'ironia del tuo commento, Elisa, ma non capisco perché essere preoccupati! Personalmente, spero davvero di esserci quando l'ubiquitous computing sarà una realtà. E se ci sarà da testarlo, per intenderci, mi offrirò volontario.

Alessandra ha detto...

Finchè il tutto viene vagliato e deciso dall'utente condivido qualunque evoluzione della rete...ma il pensiero di venire taggata per il solo riconoscimento facciale mi fa paura, niente più privacy!

OniceDesign ha detto...

In tutta onestà, credo che la privacy sia un concetto sopravvalutato, che ci hanno instillato in testa facendoci credere che sia la quintessenza della civiltà umana. Balle.
Già adesso, senza riconoscimenti facciali e cagate varie, rintracciare una persona, conoscere le sue abitudini, vedere una sua foto, leggere cosa scrivere, persino sapere in che città vive o qual'è il suo numero di telefono, è una cazzata. Basta essere su Facebook, aver pubblicato mesi fa un annuncio su Subito.it o eBay, avere una carta di credito, usare Foursquare, avere un profilo su LinkedIn o Behance, scattare foto e uploadarle su Flickr.

Siamo già SENZA privacy, solo che facciamo finta che non sia così e che, anzi, sia fondamentale che non ce la tocchino per nulla al mondo.
Dico io: ben venga il futuro. L'alternativa è una gigantesca campana di vetro, rigorosamente offline.