martedì 6 dicembre 2011

Pubblicità = Fiction?

Manuele Perini, sul sempre ottimo Tiragraffi, cita Pasquale Barbella in una fredda critica allo stato attuale della pubblicità italiana; talmente violenta da definire le comunicazione del Belpaese "modesta, millantatrice, cinica, esagerata, ipocrita e conformista".

Barbella dice: "La pubblicità italiana sembra indossare dei paraocchi che le impediscono di avere una visione più larga del sudario che l’avvolge. Vede solo sé stessa e riproduce all’infinito i tre o quattro cliché che le sono noti: didascalismo (quante parole inutili nelle voci fuori campo degli spot!); mitodipendenza (quanti testimonial, noti, seminoti e sconosciuti!); trucchi da venditore porta a porta (signora, compri questo aspirapolvere e la sua vita cambierà); fighismo a tutti i costi (ricordo la signora chic che durante un party all’aperto s’inginocchiava sul prato per leccare una goccia d’aceto); surrealismo farsesco (dal paradiso di Bonolis alle smorfie di Christian De Sica); imitazioni delle pubblicità estere più famose; etc. etc.

La comunicazione commerciale italiana è completamente slegata dalla realtà che la circonda. Mai vista una badante, neanche di striscio. Mai visto un disoccupato o un precario. Mai un accenno, neanche velatissimo, alla crisi economica o ad altri problemi collettivi. Gli italiani che si vedono negli spot sono sempre felici. Fanno colazione nei giardini delle loro ville, sorridono senza motivo e sognano mulini bianchi. Esprimono il meglio (?) di sé stessi mangiando, bevendo e guidando. Quando arrivano a cinquant’anni, si pisciano addosso in ascensore ma sono più felici di prima, perché hanno trovato l’assorbente giusto. A settant’anni ridono felici e contenti perché hanno perso i denti ma la dentiera è okay.’

Si può fare comunicazione migliore solo se si ha il senso della storia, della contemporaneità, del futuro. Solo se si parla con le persone e si parla alle persone."

Sono le due facce della medaglia della pubblicità italiana: da una parte il realismo e la concretezza delle pubblicità dimostrative, del ricorso ai testimonial, dei trucchi da venditore, delle gag; dall’altra lo spettacolo delle esagerazioni, delle iperboli, delle rappresentazioni sociali fittizie, delle rime e dei neologismi.


L'italiano sembra dunque chiedere alla pubblicità ciò che chiede alle fiction: finzione all'ennesima potenza, il racconto di un mondo che non esiste davvero e che, anzi, forse lo aiuta a distogliere gli occhi dal mondo reale. Non credo che si auspichi il ritorno ad una comunicazione strettamente sociale, etica o di propaganda: ma quanto la comunicazione italiana oggi sia in effetti lontana dai fasti degli anni '60 e '70, dall'ironia e la stravaganza di campagne che hanno fatto la storia, è un dato di fatto.

Ci vorrebbe più coraggio di osare, oltre che – forse – più capacità per farlo: coraggio dei creativi, ma soprattutto coraggio dei clienti, troppo legati alla logica del prodotto (che trova perfetto riscontro nelle pubblicità didascaliche) e spesso privi di immaginazione. Forse la crisi del nostro tempo non è più soltanto economica: è una crisi culturale vera e propria, e la capacità di reinterpretare la realtà con spirito creativo e visionario è la sua prima vittima.

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